Silvia, una volontaria in Bangladesh
(pubblicato sul numero 29 di “Ti scrivo”)
In questo articolo non parliamo di Croce rossa, non parliamo delle nostre attività, ma raccontiamo i colori e i profumi del Bangladesh attraverso la testimonianza di una nostra volontaria, Silvia Binelli, che da qualche tempo sta svolgendo servizio civile in quel lontano paese. Del suo impegno ce ne parlerà in un prossimo numero di “Ti scrivo”, ora immergiamoci nella magica atmosfera del Golfo del Bengala
Al mercato, odore di pesce al sole e sudore della gente. Molte volte io e Alessia per poco non ci lasciamo investire dai ven, carretti a benzina carichi di merce e gente.
Occhi che guardano avanti, indietro e verso tutti gli angoli. Per non essere travolti. Mentre Alessia fotografa, un ragazzo fotografa lei ripetutamente. Io mi scanso più volte dal suo obiettivo perché non vorrei finire nei suoi sogni notturni.
In vendita, sanguisughe enormi che sembrano piccoli coccodrilli, Alessia continua a ripetere che sono finte, ma sono vive e si muovono.
Uomini e donne aspettano seduti dietro i loro mucchi di frutta, verdura, semi, dolci, spezie, stoffe, misteriosi mangimi per topi e per serpenti. Si muovono di tanto in tanto lentamente davanti a qualche cliente più curioso di altri. Ogni tanto decidono di interagire mostrando qualche capo, tagliando un pezzo di ananas per assaggiarlo. Prezzi fissi e variabili, gli em sono sempre più rigidi nei modi e più discreti con le donne, quasi non ci guardano nemmeno quando paghiamo. Non ci fregano, mostrando rigore morale nella loro pacatezza. Visi secchi, denti rossi di pan che si è mangiato via anche i denti nei visi dei più anziani, odore di tabacco.
Entriamo in un negozio e ci stiamo un lungo tempo affinché Alessia scelga un saree in mezzo a infinite variazioni di forme, colori e tessuti. In una lingua sconosciuta, riusciamo comunque a interagire con il nostro basic bengali. Ci raggiunge un profumo invitante, labbra rosse e carnose, modi diretti e seducenti, per nulla discreti, una bellezza travolgente anche per noi donne: cinque hijra ci circondano. Si fanno guardare e fotografare, ci guardano e interagiscono con noi nell’imbarazzo del negoziante che sembra voler essere in un altro luogo nonostante la contingenza del suo business. Continuo a rifiutare quegli acini di uva nella mano di una di loro pensando a cosa possano aver toccato quelle dita fini in angoli di strada e nei bagni di quei treni affollati. Belle o belli, gente forte. Gli unici davvero liberi di comandare gli uomini assuefatti davanti alla loro seduzione.
All’uscita del negozio, ci fanno un test: un uomo secco e barbuto vuole sapere che cosa abbiamo comperato. Gli mostro le mie camicie da notte da un euro e mezzo l’una e gli chiedo in bengalese se le vuole portare a casa con sè.
Lui si arrende e ci lascia andare. Passato anche questo test.
Una follia resta nell’aria. Senza parametri e senza tempo. Hijra e musulmani drittissimi nello stesso luogo, mentre c’è chi si lava al lago salmastro, donne in saree che non nascondono le curve del seno e dei fianchi e donne in nero con una retina sugli occhi, calze e guanti neri alle mani.
Povertà e semplicità in varie forme e colori con una gran dose di misticismo e follia. Mentre alcuni assumono quella droga dei poveri, quella colla bianca e altri il tabacco non lavorato che scalda ancora di più sotto un sole così cocente. Sia la colla che il pan fanno di certo passare la fame e supportare meglio la fatica di procurarsi la merce all’alba e sedere lì con 40 gradi fino alla sera. Oggi non ho trovato il liquido di serpente per curare i dolori del corpo. (sb)