Tutti uguali nella diversità: da migrante a operatore verso i richiedenti asilo
(pubblicato sul numero undici di “Ti scrivo”)
“Io sono Atta-Ur, vengo dal Pakistan, ho ventotto anni e a causa della mia vita a rischio ho lasciato il mio paese e sono entrato in Europa”. Inizia così una storia ripetuta chissà quante volte, il racconto di un viaggio iniziato nel giugno del 2015 passando da Iran, Turchia, Bulgaria, Serbia, Ungheria, Austria, Germania e Croazia a piedi, in treno o in macchina fino a varcare, nell’aprile del 2016, il confine italiano a Gorizia. Il mese successivo viene trasferito prima a Trento e poi nella comunità di Ala, dove vive tuttora e ha conseguito la licenza di terza media, ha svolto attività di volontariato in varie associazioni, è riuscito a procurarsi in autonomia un lavoro temporaneo e ora sta studiando per affrontare il test di accesso alla scuola di operatore socio sanitario, visto che nel suo paese di origine era infermiere.
Un altro racconto di migranti come tanti altri? Ha senso parlare di viaggi come questo? È un quesito che si è posto anche Daniel Lobagueira, operatore dell’associazione “Punto d’approdo”, durante l’organizzazione della serata con le testimonianze dei richiedenti asilo e dei volontari che hanno seguito il loro inserimento, svoltasi venerdì 13 ottobre presso l’Auditorium della Cassa Rurale di Ala. Lo incontriamo con Atta-Ur in una saletta concessa gentilmente dalla biblioteca comunale, dove accetta di rispondere ad alcune domande.
Daniel, raccontaci un po’ di te.
Ho una storia personale che mi aiuta nel lavoro, prima di tutto per capire la loro situazione: arrivare in un paese straniero, non conoscere la lingua né le persone, non avere i mezzi e dover iniziare da zero. L’ho vissuto anch’io nel 2004 quando per problemi di sicurezza sono emigrato dall’Argentina: andare in questura per rinnovare il permesso di soggiorno, imparare una lingua, cercare un lavoro. Ci sono passato anche io, tredici anni fa, e quando parlo della mia storia con altre persone che hanno vissuto esperienze simili, anche solo la visione del mio primo permesso di soggiorno crea empatia. Ci si capisce, insomma.
Quando hai deciso di fare questo lavoro?
Sinceramente non l’ho deciso, è capitato per caso. In Argentina ero imprenditore, ma quando sono arrivato in Italia mi sono adattato iniziando a lavorare in fabbrica. Per migliorare mi sono rimesso a studiare fino a laurearmi in filosofia. Poi, dopo varie proposte di collaborazione che davano solo prestigio e non pane, per caso ho saputo che il direttore del “Punto d’approdo” stava cercando nuovi operatori al campo di Marco di Rovereto per richiedenti asilo. Mi sono proposto, sono stato ritenuto idoneo e ho iniziato a lavorare nell’aprile del 2015.
Rispetto alla prima accoglienza, dove si lavora sulle esigenze di gruppo e sui bisogni primari, mi sono ritrovato a lavorare negli appartamenti, dove hai un contatto più diretto con le persone e cogli i problemi di tutti i giorni. C’è poi anche la soddisfazione di vedere alcuni ragazzi, che avevo accolto a Marco, diventare autonomi: dopo tutto quello che hai vissuto con loro, è una delle più belle soddisfazioni che si possano provare.
Mi stai parlando solo di esperienze positive: ci sono solo quelle?
Certamente no, ci sono anche delusioni. Il filosofo Michel de Montaigne diceva che “l’uomo non soffre per le cose, ma per il valore che dà alle cose”. Se uno pretende di fare e sistemare allora soffre ma se uno capisce che siamo semplici uomini che stanno cercando di aiutare altri uomini, uno accetta anche più volentieri i propri fallimenti. Non posso dire con certezza che tutti i migranti riusciranno a raggiungere un’autonomia, semplicemente perché forse non tutti ne hanno la capacità.
Cosa ti aspettavi dalla serata? Cosa hai ricevuto?
Sono molto soddisfatto. Non volevo che l’incontro fosse solo informativo, ma che mostrasse cosa si è fatto. Il mio scopo era sensibilizzare i cittadini attraverso un messaggio ben chiaro: bisogna conoscere le persone singolarmente e non parlare solo di profughi: senza una comprensione generale non si vede la persona ma “chi mi toglie il lavoro, il criminale, chi mi crea problemi”. Se lo conosco, ha un nome, è una persona che vuole migliorare, e cadono i pregiudizi.
Sono convinto che i migranti contribuiscano a farci riscoprire i nostri valori: noi pensiamo di fare la parte di quelli che aiutano, ma grazie a loro ritroviamo il valore dell’umanità.
Spero in novità positive per Atta-Ur: anche se lo vedi sempre con il sorriso, a fine anno dovrà uscire dal progetto e perderà qualunque tipo di sostegno (economico e culturale). (pm)
Prima di salutarci, Daniel si raccomanda di ringraziare Elena Rinaldi, che gli ha permesso di svolgere con passione il suo lavoro, e tutti i volontari che a vario titolo stanno collaborando in questo progetto.
Un pensiero speciale va al caro direttore Giuseppe Piamarta, venuto a mancare lo scorso anno.